“La più grande delle magie” di Cristina Buonaugurio – Recensione di Cecilia Moreschi

E quando eravamo certi che su Harry Potter e il mondo della magia di Hogwarts fosse stato detto e scritto di tutto, ecco che arriva Cristina Buonaugurio a fornirci una chiave di lettura alla quale nessuno ancora aveva pensato. Psicologa e psicoterapeuta specializzata nella ricerca del benessere dei propri pazienti (e molto altro ancora…). Buonaugurio è anche un’appassionata lettrice della saga di Harry Potter, tanto da avere una geniale intuizione: utilizzare i personaggi più famosi della storia come accompagnatori di un percorso di crescita, alla ricerca di noi stessi. Il volume “La più grande delle magie – dalla saga di Harry Potter, un aiuto per realizzare chi siamo veramente” edito da Città Nuova, è denso di consigli, suggerimenti, domande, riflessioni. Dedicato agli adolescenti, è particolarmente utile a tutti coloro che operano con questa fascia d’età, ma anche ai più grandicelli che magari si stanno ancora chiedendo quale potrebbe essere il loro ruolo nel mondo. Orientare bene la propria vita è imparare a fare una magia. Nelle avventure di Harry Potter e dei suoi amici si nasconde un aiuto. Il libro della Buonaugurio trasforma le loro storie e le loro scelte in una bussola, per scegliere come dirigere i propri passi alla ricerca della realizzazione e del benessere.

“Le nostre anime di notte” di Kent Haruf – Recensione di Marina Marinelli

“Le nostre anime di notte” di Kent Haruf è un libro che arriva al cuore prima che alla mente. Questa breve storia, intensa e delicata, dal titolo evocativo, si legge d’un fiato, ma soprattutto compie il miracolo di spogliare il romanticismo dal superfluo. Così che una storia d’amore, inaspettata e imprevista, si trasforma in un colloquio tra anime. “Io mi sento sola. Penso che anche tu lo sia. Mi chiedevo se ti andrebbe di venire a dormire da me, la notte. E parlare. (…)”. È da questo invito che scaturisce la storia di Addie Moore e del suo vicino di casa, Louis Waters, due vedovi in età avanzata, che soffrono la solitudine e il vuoto sentimentale in cui è precipitata la loro vita. Nasce un’amicizia particolare, fatta soprattutto di incontri notturni che presto diventano un rituale atteso e desiderato, da cui prende senso l’intera giornata dei due. Il lettore entra nelle pieghe di confidenze sussurrate sotto le stelle, di gesti premurosi, di sentimenti nascenti, di ricordi condivisi. Ma la relazione tra Addie e Louis sarà ostacolata dai pregiudizi della comunità di Holt, il paese immaginario del Colorado che fa da sfondo anche alla “Trilogia della Pianura”, il capolavoro che ha dato giustamente fama all’autore. La mentalità becera e provinciale da un lato, l’avversità dei figli dall’altro, costringono Addie e Louis a camminare in bilico tra l’urgenza dei sentimenti e il coraggio di rivendicarli. Dolorosa e inevitabile la scelta finale tra la libertà e il rimpianto. “Le nostre anime di notte” è il testamento spirituale di Kent Haruf, uno dei protagonisti della letteratura americana contemporanea, scomparso nel novembre del 2014, proprio mentre era impegnato nella stesura di questa storia delicata ma ben congegnata. Esaltata nella sua semplicità da una prosa essenziale e priva di orpelli, capace di creare immagini persistenti. Significative anche le pause e i silenzi che tanto avvicinano la letteratura alla vita reale. La malinconia nella scrittura di Haruf resta solo un lampo sullo sfondo. “Sto parlando di attraversare la notte insieme. E di starsene al caldo nel letto, come buoni amici”. Non c’è un tempo per innamorarsi e per vivere. La vita ci riserva sempre qualcosa, anche quando non ci aspettiamo più nulla e “a me sta piacendo più di quanto io pensi di meritare”.

“La mano”di George Simenon – Recensione di Emanuele Ludovisi

Sono sufficienti poche righe e Simenon con il suo meccanismo narrativo perfetto ci conduce passo dopo passo nel pieno della vicenda : un’invidia a lungo covata, una tormenta di neve, la banalità crudele del tradimento e le verità scomode dell’inconscio del protagonista. La tranquilla normalità familiare di un avvocato affermato, quarantacinquenne, della provincia americana, Donal Dodd, s’inceppa su una di quelle minuscole e imprevedibili incrinature della vita. Una rivelazione inattesa risveglia nel protagonista antichi nodi irrisolti che sono però ben noti alla moglie Isabel, silenziosa custode della quiete famigliare. Donald Dodd si muove sulla scena del romanzo vestendo i panni del giustiziere riluttante, combattuto tra rimorsi e desideri di rivalsa, sedotto dalla possibilità di un’ avventura amorosa che lo potrebbe finalmente riscattare dalle sue rinunce e dal lungo torpore della propria vita famigliare. Tutto potrebbe andare per il verso giusto ma nel gioco dei destini non ci sono partite perfette. Non è mai facile ritrovare un equilibrio quando ti rendi conto di non poter più nascondere nulla a tua moglie che sa tutto di te, non puoi più fingere e lei ti giudica con il suo sguardo lucido, severo e senza appello.

“Viaggio nel passato” di Stefan Zweig – Recensione di Giuliana Giove

La storia di “Viaggio nel passato”, romanzo breve di Stefan Zweig , è costruita con sapienza e raffinata capacità di entrare nell’anima e nella psicologia dei personaggi , che in un “sistema “ perfettamente equilibrato svelano pagina dopo pagina al lettore la loro natura , le loro inclinazioni , i sogni più intimi. Il protagonista è Ludwig, ragazzo ambizioso e tenace che nasconde dietro una “ straordinaria competenza… la ferita ancora purulenta di una giovinezza profanata, rovinata dalla povertà e dalle elemosine” (cit.). Aiutante del protagonista è il Consigliere G. , direttore di una prestigiosa fabbrica di Francoforte. Aiutante e al contempo OGGETTO del DESIDERIO è la moglie del Consigliere, donna angelo per dirla con Dante , madonna borghese, la definisce l’autore, “dolce e rassicurante , dalla serena consapevolezza di sé e la cui bontà conferiva a ogni suo gesto un’aura materna”. La conquista e l’ amore della donna angelo sono oggetti del desiderio ma lo sono anche il successo , il riscatto sociale , la realizzazione di sé da parte del protagonista. Giocano il ruolo di oppositori all’amore il lavoro e la lontananza, mentre essi diventano indispensabili aiutanti nella conquista del successo. L’autore prende per mano il lettore-bambino e lo accompagna in questo viaggio nel passato a passi sicuri, con sguardo onnisciente, servendosi di una lingua dotta, ricercata nella sintassi e nel lessico. L’aggettivazione è sovrabbondante ( dolce luce eterea) , la parola ridondante, sempre fortemente evocativa e ricca di similitudini efficaci ( “ come un coltello quel pensiero trapassò la vela gonfia di orgoglio della sua gioia” , o “il dolore esplose con violenza elementare, un evidentissimo, convulsivo dolore fisico, …che gli attraversò tutto il corpo, dalla fronte fino alle profondità del cuore , uno strappo che chiarì tutto quanto , come un lampo nel cielo notturno). Questo gusto quasi barocco nelle descrizioni, pur non corrispondendo al mio gusto personale , si rivela assai efficace per rendere l’atmosfera del romanzo -scene e dialoghi , personaggi e sentimenti - palpabile e sfumata, accesa e dolente, eternamente VERA.

“L’Occidente e la nascita di una società planetaria” di Aldo Schiavone – Recensione di Franco Fatigati

Occidente: storie, geografie, concetti? Comunque si voglia la questione va maneggiata con cautela, coraggio e rigore scientifico. Così fa Aldo Schiavone, insigne storico dell’antichità, cimentandosi allo stesso tempo con una nuova intrapresa editoriale, per i tipi del Mulino, dallo sfidante nome Faustiana. L’autore rimescola le usuali linee di ragionamento portando passato, presente e futuro oltre il classico partire da per arrivare a. L’estenuante dimensione concettuale dell’Occidente lo costringe non a un elogio delle sue “qualità” per possibilità future, ma in una visione per un destino planetario, in linea con le suggestioni avviate dalla presente globalizzazione. E, faustianamente, volontà e determinazione di cambiamento trovano un equilibrio incantato nelle forme, le più diverse, che la civiltà o meglio le civiltà europee e infine nordamericana hanno forgiato fino a farle convergere, quasi per un destino indeterminato e indeterminabile colto nell’universalità di una società planetaria, come recita parte del titolo del volume. Sarebbe fuori strada chi pensasse a un incantamento sopra le istituzioni euroccidentali. Anzi Schiavone non si sottrae a una virile dichiarazione delle fragilità di un insieme complesso ed eterogeneo che proprio da terribili turbamenti ha costruito istituzioni da vedere nella loro “applicabilità” universale. Schiavone non richiama la fine della storia, troppo frettolosamente vista come rimedio liberal-democratico alle tensioni della Guerra fredda, ma sostiene e rivendica scientificamente la chiara impronta della modernità esplicitata dall’Occidente, come possibile inizio di una nuova fase della storia. Le tesi di Schiavone, oltre il raffinato fraseggio culturale, conducono a un generale ripensamento delle categorie Occidente-Resto del mondo che proprio da quelle rifrangenze trovano elementi di connessioni e innovazioni provenienti dalle società (il pensiero va obbligatoriamente a Fernand Braudel), avvalorando con forza quello che Luca Luigi Cavalli Sforza chiamava il “vigore degli ibridi”.

“Palla di sego” di Guy de Maupassant – Recensione di Edmond Galasso

Attraverso questa recensione letteraria, proporre come lettura estiva, una novella francese molto singolare di Guy de Maupassant, intitolata "Boule de Suif", in italiano "Palla di Sego". Si tratta della prima novella del giovane Maupassant, pubblicata durante le famose serate di scrittura letteraria della villa di Medan, dove il padrone di casa, un certo Emile Zola, organizzava incontri tra giovani "aspiranti" scrittori, sotto il patrocinio del"Maitre à Penser " del realismo letterario, Gustave Flaubert. Guy de Maupassant (1850-1893), viene considerato come il più grande novellista europeo della sua generazione in piena" Belle Époque", appartiene a questa corrente di romanzieri - scittori-novellisti, di matrice realistica -espressiva con oltre 260 novelle scritte tra il 1880 e il 1890 e in cui ha prevalentemente narrato le varie forme sociali della condizione femminile della Francia repubblicana, aristocratica, borghese, popolare, cattolica, laica e massonica. "Boule de Suif" (Palla di Sego), è dunque un racconto tratto da una storia vera, nel volume "Les soirées de Médan" del 1880, ambientato durante la Guerra Franco-Prussiana (1870 - 1871), nelle campagne di Normandia. All'interno di questa novella, Maupassant inizia con la fuga precipitosa dal capoluogo Rouen di alcuni civili di ceti sociali differenti di fronte all'avanzata militare prussiana, tutti angosciati nel raggiungere il porto di Le Havre, con l'ultima diligenza e poter così passare per alcuni verso l'Inghilterra. I viaggiatori sono composti da tre coppie di tre classi sociali diversi, da un militante repubblicano, e due religiose. Questi nutrono un atteggiamento diffidente nei confronti di una prostituta che viaggiava con loro. La prostituta, soprannominata, "Boule de Suif", vale a dire palla di grasso per il suo aspetto fisico, è molto generosa con gli altri passeggeri della diligenza che sono senza provviste alimentari per il viaggio, e Boule offre loro il proprio cibo con molta generosità durante la prima parte del tragitto. Arrivati alla prima sosta presso una locanda già occupata da soldati prussiani, ben presto i nuovi ospiti francesi sono confrontati alle angherie dell'ufficiale tedesco sul "gentile sesso " e in particolare non nasconde l'intenzione di giacere con Boule de Suif, imponendo loro un forma di ricatto quanto alla prosecuzione del viaggio. Ma Boule si rifiuta, perché non vuole tradire da brava patriota francese, la sua lotta contro il nemico prussiano. Dopo le insistenze degli altri viaggiatori, lei decide di sacrificarsi per poter fare ripartire la diligenza bloccata nella scuderia dell'ostello per ordine dell'ufficiale prussiano... Come finirà questa strana e rocambolesca storia?! Toccherà al lettore scoprirla, ma possiamo dire che Maupassant, attraverso questo racconto realistico e descrittivo cercò di evidenziare i vari difetti psicologici, morali e sociali degli individui del suo Tempo.

“Oh William!” di Elizabeth Strout – Recensione di Tonia Parlato

Hai portato con te tutto l’occorrente per un’immersione in piena regola nella provincia americana? Lucy Barton è tornata e in “Oh William!” sembra voler sigillare la sua storia in una sorta di auto conclusione che mette i puntini sulle “i”. Un personaggio che la Strout ci ha fatto amare in “Mi chiamo Lucy Barton” e “Tutto è possibile”, (pubblicati da Einaudi, rispettivamente nel 2016 e nel 2017). Eppure il romanzo è completo e indipendente, vivendo di una luce propria e autonoma che lo rende il racconto perfetto per strizzare l’occhio alla vita della protagonista e un po’ anche alla nostra. Ancora una volta, con schietta profondità, l’autrice fa muovere Lucy sulla pagina e ne snocciola i sentimenti uno a uno, raccontando la storia del suo primo matrimonio con l’affascinante William: dal loro primo incontro, passando per la nascita delle due figlie, fino al progressivo scollamento dell’uno dall’altra e alla presa di coscienza che l’amore può mutare e trasformarsi in qualcos altro al quale difficilmente si può dare un nome. Così la vita di Lucy continua a confluire in quella di William e viceversa, in un gioco di incastri e interazioni che a distanza di anni e del tempo che passa restituisce al lettore la sana e cristallina consapevolezza che non ci si salva mai da soli e che ciascuno intreccia un microcosmo di relazioni che a volte ci manda in frantumi la vita e in altri casi ce l’aggiusta. "E poi ho pensato, Oh William! Ma quando penso Oh William!, non voglio dire anche Oh Lucy!? Non voglio dire Oh Tutti Quanti, Oh Ciascun Individuo di questo vasto mondo, visto che non ne conosciamo nessuno, a partire dai noi stessi? Tranne forse un pochino, un minimo sí. Però siamo tutti misteriose costellazioni di miti. Siamo tutti un mistero, ecco che cosa voglio dire. Potrebbe essere l’unica cosa al mondo che so per certo."

“Diario diurno” di Enrico Vanzina – Recensione di Nicoletta De Menna

Il libro è una sorta di ricamo eseguito con cronache, memorie e l’aggiunta di alcuni dei seguitissimi articoli scritti dall’Autore per il Messaggero. Le pagine fra annotazioni di incontri e viaggi, ricordi e riflessioni mai banali racchiudono la vita di Enrico Vanzina, e in controluce anche la nostra, nel periodo compreso fra il 2010 e il 2021. Poco più di un decennio dunque, abbastanza per registrare dei cambiamenti sociali… anche quando non giungono a compimento, o per ribadire delle ferme convinzioni personali… anche quando vacillano. Il racconto, pur senza ostentazione o supponenza, è colmo di riferimenti illustri attraverso i quali si tocca con mano lo spessore del mondo culturale italiano e internazionale in cui lo scrittore e sceneggiatore è da sempre immerso, anche se non è questo ciò che mi ha colpito. Sono arrivata alla fine senza fretta, come si addice alla lettura di un diario. Non mi ha abbagliato la girandola di nomi, luoghi o eventi straordinari di cui egli è protagonista e che pure riporta sempre (sempre) con una quieta pacatezza per la quale è impossibile non provare simpatia. Ciò che mi ha più colpita è stata invece la sua determinazione nel guardare persone e fatti con nella luce migliore. Vanzina finge? Racconta una versione edulcorata? No, e la conferma di questa mia impressione si trova proprio fra le pagine di “Diario Diurno” dove mentre appunta annota e ricorda, al tempo stesso ammorbidisce e stempera tutto, o quasi, con sincera indulgenza. E questa, secondo me, è la più alta delle qualità. Prendendo spunto dalla leggenda Cherokee dei due lupi ((il nero e il bianco), Enrico Vanzina dà da mangiare al suo lupo bianco restituendoci un senso di pace non solo personale che è davvero un piccolo dono.

“Privatocrazia – Perchè privatizzare è un rischio per lo Stato democratico” di Chiara Cordelli – Recensione di Roberto Codini

“Viviamo nell’era dello Stato privatizzato, o forse meglio dire in una privatocrazia - il privato diventa co-responsabile e co-amministratore della cosa pubblica. Una domanda allora si impone: può questo nuovo modello di Stato governare in modo legittimo?” Chiara Cordelli, filosofa, professoressa associata presso il Dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Chicago (Il suo primo libro, The Privatized State, Princeton University Press, 2020, ha ricevuto nel 2021 il premio come miglior primo libro di filosofia politica dall’European Consortium for Political Research) nel suo ultimo saggio suggerisce un cambio di prospettiva: bisogna pensare alla privatizzazione come ad un problema fondamentalmente politico e filosofico. “Privatocrazia” non è una polemica fine a se stessa ma si tratta di concepire un modo nuovo di gestire collettivamente la cosa pubblica. I confini tra il pubblico e il privato sono sempre più indefiniti e il ruolo dello Stato moderno negli ultimi anni è cambiato profondamente e ha subito radicali trasformazioni nel modo di governare e amministrare: lo Stato dirige ma è il privato che spesso gestisce. Se prima governare significava spendere e amministrare direttamente, ora sempre più spesso equivale a coordinare e incentivare una serie di attori privati sfruttandone le capacità organizzative e l’autonomia decisionale. Per decenni i governi di tutto il mondo hanno promesso una maggiore efficienza rivolgendosi a società private per fornire beni pubblici, quali la sanità, l’istruzione e i trasporti. Tragicamente, la pandemia di Covid-19 ha messo in luce l’inefficienza e l’ingiustizia di molti sistemi privatizzati. In Italia, in particolare, sono emersi i limiti della privatizzazione della sanità; prima ancora, dell’istruzione. La tesi del libro è che la privatizzazione così concepita può essere una minaccia alla democrazia, mettendo in discussione la stessa legittimità dell’ordine democratico e nonostante questo tali problematiche sembrano assenti dal dibattito pubblico. Si è arrivati alla “privatocrazia” per una crisi di fiducia negli Stati e si è fatto ricorso a strategie di mercato che introducono elementi di competizione all’interno dell’amministrazione pubblica sulla base della presunta maggiore efficienza e migliore qualità. Affrontando il tema del rapporto tra pubblico e privato da un punto di vista politico e non in termini di mera efficienza economica, Chiara Cordelli propone una riflessione sulla trasformazione dello Stato contemporaneo che dimostra come la tendenza a privatizzare comprometta la ragione fondamentale per la quale lo Stato democratico esiste. L’autrice evidenzia inoltre come anche la filantropia possa diventare potere, laddove si conceda ad un privato di determinare i confini della nostra libertà (come avviene, ad esempio, con Zuckerberg, Gates e Besos). La soluzione proposta è la “democratizzazione della burocrazia”: richiamandosi a Kant e a Rousseau (tra i quali individua una via di mezzo) occorrerebbe una burocrazia esperta e indipendente, aperta alla partecipazione attiva dei cittadini (la “vigilanza civica”) e soggetta ad un controllo democratico dal basso. Solo, infine, ponendo dei limiti costituzionali alla privatizzazione è possibile realizzare quello che l’autrice definisce l’ “autogoverno democratico”. Il saggio di Chiara Cordelli offre un'analisi precisa e puntuale dei rischi connessi alla privatocrazia e, a differenza di molti suoi colleghi, non si limita ad evidenziare i diversi problemi ma ne propone la soluzione.

“Vite Coniugali” di Bernard Quiriny – Recensione di Filippo Caronia

Quando sono entrato da ELI e ho cominciato ad aggirarmi fra i libri disposti con cura sul tavolo o sistemati in bella mostra sugli scaffali, mi ha attratto la copertina di questo libro con tanti piccoli disegni disposti a rettangolo ed il suo titolo: “VITE CONIUGALI” di Bernard Quiriny. Ho scorso l’inizio del primo racconto: IL CLUB DEI SEDENTARI. Che strana storia sarà mai quella di un club di sedentari? L’ho sfogliato veloce fino alla fine del secondo racconto: IL VENDITORE DI CARTOLINE ANTICHE. … mi sono sentito mancare… ho iniziato a correre verso la macchina per scappare da quel luogo remoto e balzano nel quale le persone non muoiono mai, o lo fanno due volte… Il gioco narrativo dell’autore è fatto di personaggi molto compìti coinvolti in storie fantastiche e surreali; subito attratto dalla sua prosa molto curata e per niente scontata, sono balzato al racconto che dà il titolo al libro: VITE CONIUGALI “Ogni volta ho ricominciato da zero.” ... La sua fantastica storia iniziava a prendere forma nella mia mente: “E pensa di andare avanti così per sempre?”. “A ogni divorzio mi convinco che sia l’ultimo. Poi la incontro di nuovo”. Leggerlo è stato un tutt’uno con l’uscire dalla quotidianità di sempre e cominciare una divertente navigazione fra imprevedibili racconti in cui Quiriny ci fa incontrare gli editori bislacchi di CRITERI EDITORIALI, i pittori nefasti di LA MOSTRA oppure due etnie profondamente diverse fra loro che trovano la formula perfetta della coabitazione pacifica in CONVIVENZA. A 42 anni Bernard Quiriny è fra i più sorprendenti e raffinati autori francesi contemporanei e questo suo ultimo libro ne è la conferma.

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